Questa
mattina per la prima volta dopo circa venti giorni ho messo il mio faccione
davanti ad uno specchio. Uno specchio vero intendo, non quelli piccolini che ti
porti dietro e che di solito servono solo a schiacciarti i brufoli o a farti,
male, la barba e che a volte, quasi sempre, si rompono.
La
faccia è abbronzata, il naso bruciacchiato si sta pelando leggermente e attorno
alle narici ho delle fastidiose croste dolorose provocate dal sole che si
rifletteva sul ghiacciaio, il vento e il freddo respirato. La barba tagliata al
mio arrivo a South Inylchek, il ghiacciao dove è posizionato il campo base del
Khan Tengri e del Pobeda, sta ricrescendo sopra a delle guance scavate. I
lineamenti si sono fatti più segnati, le labbra solo più leggermente gonfie dai
residui di erpes che le hanno divorate nei giorni precedenti. I muscoli nelle
gambe sono quasi la metà e sono anche dimagrito: l’altro ieri, indossando i
pantaloni che prima stavano su da soli, ho dovuto mettere la cintura. Insomma
questi giorni di alta quota hanno lasciato il segno. Adesso siamo ad Yssik
Khol, il secondo lago alpino più grande del mondo e che qui in Asia Centrale è
famosa meta turistica. Ci troviamo ad una quota di circa 1600 mt e ci sono 30
gradi. Il nostro volo in elicottero dal campo base del Khan Tengri e del Pobeda
era previsto per l’8 agosto, ma si è presentata quella situazione per cui,
fatto un primo tentativo di scalata del Pobeda e fallito ad un pelo dalla cima,
tornati giù, mancavano ancora tanti giorni all’8 agosto, ma non abbastanza per
un secondo tentativo. In più ci si è messo di mezzo anche il brutto tempo. Così
abbiamo cercato di anticipare il volo in elicottero, e ci siamo riusciti, per
fare qualche giorno sul lago a rigenerarci e ricaricarci psicologicamente per
le ultime due montagne che si trovano in un altro stato, il Tajikhstan, in
un’altra catena montuosa, il Pamir, 600 chilometri più a sud di qua. Potevo
stare lì, a South Inyilchek, a concentrarmi sul Pobeda, Dima Griekov, il famoso
capo-comandante del campo base, nonché famoso alpinista e guida russo, un pezzo
d’uomo russo che ascolta musica rock ad alto volume, fuma e beve vodka e capace
di realizzare alcune scalate da piolet d’or, insomma il tipico forte alpinista
russo proprio come uno se lo immagina da fuori, dall’Italia. Ebbene egli ci ha
consigliato di restare lì e scalare il Pobeda, che solo il Pobeda conta e
probabilmente con un secondo tentativo ce l’avremmo fatta. Ma questo voleva
dire rinunciare alle altre due montagne: Il Korjeneskwaja e il Communism peak. Infatti
c’è un solo elicottero in Tajikhstan che fa un solo volo in agosto per
trasferire gli alpinisti sul Moskvina Glacier, dove è situato il campo base
comune alle due montagne. Ia mia propensione a conoscere nuovi posti mi ha
portato a scegliere di andare a mettere i ramponi e gli sci sulle due nuove
montagne e vedere nuovi posti e fare nuove esperienze. Il Pobeda sarà lì anche
il prossimo anno e potete contarci che ci sarò anch’io. Anche Loscia
(soprannome di Alexey), il mio nuovo compagno di avventura in questo
snowleopard ski project, è stato d’accordo con me e insieme andremo a Moskvina!
Loscia è Russo, è un ragazzo di 28 anni, basso, biondo e non beve. Neanche una
birra. Lo potrei definire un ragazzo sano. Ha le sue convinzioni che porta
avanti con determinazione e raramente sgarra. Ride poco. All’inizio non rideva
affatto, poi col tempo e i giorni passati assieme in parete e il nostro
affiatamento sempre maggiore, sono riuscito a farlo ridere. Ora ci intendiamo
abbastanza e possiamo permetterci di scambiarci battute. Forse all’inizio era
spaventato dal mio disordine e dal mio modo di andare in montagna da
sci-alpinista punk, poi deve avere realizzato che magari tanto male non sono.
Il Pobeda è stata la montagna chiave. Lì si può dire che siamo diventati amici
e fratelli di sangue poiché esattamente una volta a testa ci siamo salvati la
vita.
Ma
veniamo a questo Pobeda: partiamo nella tarda mattinata del 28 luglio per
affrontare i 12 km di morena prima e poi di ghiacciaio terminale che separano
il campo base dalla base della montagna con la sua icefall. Impieghiamo
all’incirca 4 ore, arriviamo la sera, montiamo la tenda, mangiamo, dormiamo.
Tutto
bene. nottata piacevole, calda e senza vento. La mattina ci mettiamo in
movimento per affrontare la icefall alle 8:00. Troppo tardi. La parete è già
toccata dal sole che scalda immediatamente il ghiaccio e inizia a scaricare.
Piccoli blocchi di ghiaccio si staccano tutto intorno a noi. Bisogna fare in
fretta. Il giorno prima ha aperto traccia sempre Loscia, quindi oggi tocca a
me. Ha deciso. Così affronto il primo tratto che consiste in un muro ghiacciato
di cca 60 gradi. Nessun problema, piccozza in mano e sù. Il problema arriva
quando attraverso la spalla e mi porto su un altro versante della parete. Qui
la pendenza è la stessa ma cambia la consistenza della neve. Ora sprofondo fino
alla vita e salire è un’impresa. Naturalmente prima di noi sono saliti solo due
canadesi le cui tracce sono state coperte dalle nevicate dei giorni scorsi e
non hanno lasciato corde fisse. Così, spostandomi un po’ di qua e un po’ di là,
andando a cercare tratti ghiacciati, e facendo una grande sudata, riesco a
salire fino a un camino ghiacciato, lo affronto e arrivo alla base di un enorme
seracco verticale sulla destra da affrontare come passaggio obbligato. Mi armo
di coraggio, sfoggio tutta la mia tecnica di progressione su ghiaccio, metto
perfino una vite a metà parete, e salgo. Bisogna fare in fretta perché sta
sciogliendo tutto! Supero il tratto difficile e pericoloso, preparo una sosta e
faccio venire su Loscia. Siamo fuori dall’icefall. Qui inizia un lungo plateau
di neve fresca fino al Diki pass. Io mi pento immediatamente di aver lasciato
gli sci sotto perché troppo pesanti. Sprofondando nella neve sempre fino al
ginocchio e a volte fino alla vita, sempre da primo, con enorme fatica,
superiamo il Diki pass. Qui le pendenze si fanno più accentuate e dobbiamo fare
lo zigo zago tra enormi crepacci. Procediamo
lentamente perché la neve è sempre profonda anche se più fredda. Alle 20:00
arriviamo ad una quota di circa 6050, troviamo uno spiazzo e decidiamo di
montare la tenda lì. Non siamo arrivati ai 6400 mt del campo tre come ci
eravamo ripromessi ma sono dodici ore
che siamo in movimeto, siamo molto stanchi e non desideriamo altro che
mangiare, bere e dormire. La giornata è stata bella, cielo terso, azzurro e
poco vento. Durante le operazioni di montaggio Loscia trova una sacca bianca
lasciata lì da chissachì e chissà quanti anni prima. Dentro ci sono un fornello
malandato, delle bombole di gas, un chiodo da ghiaccio, delle pastiglie di
magnesio che io apro e mi metto subito in bocca a secco, col risultato di
creare un schiuma incontrollabile che mi esce dalle labbra e si insinua in gola
bruciandola, e poi una lattina di carne di porco e una di latte condensato
vecchia di vent’anni. Sull’etichetta c’è scritto che è meglio consumarla entro
un anno dall’anno di fabbricazione. A me sembra esagerato, così per cena ci
spariamo noodles con carne di porco e latte condensato con stagionantura 20
anni sul Pobeda. Attendo con terrore gli effetti sul mio stomaco che per
fortuna non arrivano. La mattina sono regolare come al solito.
La
notte passa tranquilla, la mattina ci svegliamo alle sei e facciamo colazione a
base di porridge. Abbiamo trovato un alimento che ci ha messo d’accordo: non
piace a nessuno dei due, ma condito con una buona dose di cioccolata calda in
polvere, ancora retaggio del Barzar, non è malaccio.
Partiamo
di nuovo verso le 8:00 e sta volta facciamo solo 6 ore di scalata. Oggi è più
tecnica: tratti di neve a placche e non, misti a tratti più ghiacciati si
alternano a tratti su roccia fino al grado di 5a. Ci sono delle vecchie corde
fisse con le quali, quando possibile, mi aiuto a piene mani. Non usiamo la
jumar. La scalata sarebbe anche piacevole se non fosse per il vento forte che
ti sferza da destra e per lo zaino il cui peso diventa sempre più
insopportabile. Il vento mi costringe a indossare i moffoloni d’alta quota.
Faticosamente arriviamo così alla quota di 6900 metri, dove inizia la cresta
sommitale che ti porta poi alla cima. Siamo al C4, per noi il C3. Guardando
verso la cima abbiamo alla nostra destra la Cina e alla nostra sinistra il Kirghistan.
Nonostante la fatica e la stanchezza siamo felici di essere arrivati lì così
velocemente. Dopo una breve discussione in cui Loscia vuole scavare una truna
nella neve e io voglio montare la tenda, iniziamo a scavare la truna, ma io lo
convinco quasi subito a montare la tenda, così ci buttiamo dentro la mia bella
tenda monotelo a due posti. Siamo tutti e due molto stanchi , sciogliamo neve,
facciamo tanta acqua e ci mettiamo a dormire alle 18:00 perché la sveglia sarà
alle 3:00 per prepararci e partire verso le 5:00 per l’attacco alla
vetta.
Siamo
carichi e, almeno da parte mia, non vedo l’ora che arrivi l’indomani per
partire alla volta della cima. Le tre arrivano, la sveglia suona, io guardo
fuori e ricevo la brutta sorpresa: apro la tenda e vengo investito da un
leggero nevischio, guardo bene e non vedo le stelle, guardo meglio e proprio
non vedo a due metri di distanza. Visuale azzerata e perturbazione in arrivo,
impossibile partire. Posticipiamo la sveglia alle 4:00 e situazione invariata,
alle 5:00 idem, così di ora in ora fino alle 8:00, quando, con il perdurare
della situazione, decidiamo di scavare sta benedetta truna. Lavoriamo sodo per
tre ore e quasi finiamo la truna quando tutti e due abbiamo troppo freddo ai
piedi e ci buttiamo in tenda a scaldarli. Come per magia alle 11:30 il cielo
diventa limpido e noi ci domandiamo cosa fare.
Loscia
ha un collegamento radio col campo base in cui io riconosco solo la parola
ciclon. Niente da fare. Davanti a noi si prospettano cinque giorni di una
grossa perturbazione. L’unica cosa da fare è di prendere tutte le nostre cose e
scendere il più velocemente possibile. Che rabbia, la punta era così vicina… .
Vabbè riportiamo a casa la pellaccia. Partiamo a mezzogiorno e alle 20:30,
stanchi morti, ma proprio stanchi morti arriviamo al C1 alla base del
ghiacciaio.
Adesso
sono qui ad Yssik Khol, ho appena scritto queste righe e, ripensando a quei
momenti, il sentimento che provo è di rammarico. Rammarico perché il Pobeda è
proprio una montagnona difficile e faticosa. Non è detto che il giorno dopo,
senza il ciclon in arrivo, saremmo arrivati comunque in cima, ma avevamo ottime
probabilità. Ora bisognerà rifare tutto da capo. Adesso mi devo concentrare
sulle altre ultime due montagne. O meglio adesso per ancora due giorni non mi
devo concentrare affatto, stiamo mangiando una quantità di frutta incredibile,
stiamo nuotando nel lago e sta mattina ho anche fatto una corsa di un’ora e
mezza dopo non so quanto tempo. Ovviamente sto rigenerando anche le riserve di
birra… . Per ancora due giorni non devo pensare alle montagne, poi l’8 agosto
torneremo a Bishkek e lì si ricomincerà di nuovo. Il 9 è dedicato
all’organizzazione e preparazione e il 10 si vola a Dushanbe, la capitale del
Tajikstan, poi l’11 in elicottero fino al Moskvina Glacier e la nostra
intenzione è quella di scendere dall’elicottero e di recarci subito al C1 del
Communism Peak perché avremo solo 15 giorni di tempo per scalare le due montagne.
Il progetto snowleopard continua, anche se ha subito
un duro colpo con la mancata cima del Pobeda, potete giurarci che il prossimo
anno, se riusciremo a scalare ora le ultime due montagne, saro’ di nuovo lì,
alla base del Pobeda.CALA
lettura stupefacente, grande Cala !! ciao Giovanni Pragelato
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