giovedì 8 agosto 2013

IL POBEDA

Questa mattina per la prima volta dopo circa venti giorni ho messo il mio faccione davanti ad uno specchio. Uno specchio vero intendo, non quelli piccolini che ti porti dietro e che di solito servono solo a schiacciarti i brufoli o a farti, male, la barba e che a volte, quasi sempre, si rompono.
La faccia è abbronzata, il naso bruciacchiato si sta pelando leggermente e attorno alle narici ho delle fastidiose croste dolorose provocate dal sole che si rifletteva sul ghiacciaio, il vento e il freddo respirato. La barba tagliata al mio arrivo a South Inylchek, il ghiacciao dove è posizionato il campo base del Khan Tengri e del Pobeda, sta ricrescendo sopra a delle guance scavate. I lineamenti si sono fatti più segnati, le labbra solo più leggermente gonfie dai residui di erpes che le hanno divorate nei giorni precedenti. I muscoli nelle gambe sono quasi la metà e sono anche dimagrito: l’altro ieri, indossando i pantaloni che prima stavano su da soli, ho dovuto mettere la cintura. Insomma questi giorni di alta quota hanno lasciato il segno. Adesso siamo ad Yssik Khol, il secondo lago alpino più grande del mondo e che qui in Asia Centrale è famosa meta turistica. Ci troviamo ad una quota di circa 1600 mt e ci sono 30 gradi. Il nostro volo in elicottero dal campo base del Khan Tengri e del Pobeda era previsto per l’8 agosto, ma si è presentata quella situazione per cui, fatto un primo tentativo di scalata del Pobeda e fallito ad un pelo dalla cima, tornati giù, mancavano ancora tanti giorni all’8 agosto, ma non abbastanza per un secondo tentativo. In più ci si è messo di mezzo anche il brutto tempo. Così abbiamo cercato di anticipare il volo in elicottero, e ci siamo riusciti, per fare qualche giorno sul lago a rigenerarci e ricaricarci psicologicamente per le ultime due montagne che si trovano in un altro stato, il Tajikhstan, in un’altra catena montuosa, il Pamir, 600 chilometri più a sud di qua. Potevo stare lì, a South Inyilchek, a concentrarmi sul Pobeda, Dima Griekov, il famoso capo-comandante del campo base, nonché famoso alpinista e guida russo, un pezzo d’uomo russo che ascolta musica rock ad alto volume, fuma e beve vodka e capace di realizzare alcune scalate da piolet d’or, insomma il tipico forte alpinista russo proprio come uno se lo immagina da fuori, dall’Italia. Ebbene egli ci ha consigliato di restare lì e scalare il Pobeda, che solo il Pobeda conta e probabilmente con un secondo tentativo ce l’avremmo fatta. Ma questo voleva dire rinunciare alle altre due montagne: Il Korjeneskwaja e il Communism peak. Infatti c’è un solo elicottero in Tajikhstan che fa un solo volo in agosto per trasferire gli alpinisti sul Moskvina Glacier, dove è situato il campo base comune alle due montagne. Ia mia propensione a conoscere nuovi posti mi ha portato a scegliere di andare a mettere i ramponi e gli sci sulle due nuove montagne e vedere nuovi posti e fare nuove esperienze. Il Pobeda sarà lì anche il prossimo anno e potete contarci che ci sarò anch’io. Anche Loscia (soprannome di Alexey), il mio nuovo compagno di avventura in questo snowleopard ski project, è stato d’accordo con me e insieme andremo a Moskvina! Loscia è Russo, è un ragazzo di 28 anni, basso, biondo e non beve. Neanche una birra. Lo potrei definire un ragazzo sano. Ha le sue convinzioni che porta avanti con determinazione e raramente sgarra. Ride poco. All’inizio non rideva affatto, poi col tempo e i giorni passati assieme in parete e il nostro affiatamento sempre maggiore, sono riuscito a farlo ridere. Ora ci intendiamo abbastanza e possiamo permetterci di scambiarci battute. Forse all’inizio era spaventato dal mio disordine e dal mio modo di andare in montagna da sci-alpinista punk, poi deve avere realizzato che magari tanto male non sono. Il Pobeda è stata la montagna chiave. Lì si può dire che siamo diventati amici e fratelli di sangue poiché esattamente una volta a testa ci siamo salvati la vita.
Ma veniamo a questo Pobeda: partiamo nella tarda mattinata del 28 luglio per affrontare i 12 km di morena prima e poi di ghiacciaio terminale che separano il campo base dalla base della montagna con la sua icefall. Impieghiamo all’incirca 4 ore, arriviamo la sera, montiamo la tenda, mangiamo, dormiamo.
Tutto bene. nottata piacevole, calda e senza vento. La mattina ci mettiamo in movimento per affrontare la icefall alle 8:00. Troppo tardi. La parete è già toccata dal sole che scalda immediatamente il ghiaccio e inizia a scaricare. Piccoli blocchi di ghiaccio si staccano tutto intorno a noi. Bisogna fare in fretta. Il giorno prima ha aperto traccia sempre Loscia, quindi oggi tocca a me. Ha deciso. Così affronto il primo tratto che consiste in un muro ghiacciato di cca 60 gradi. Nessun problema, piccozza in mano e sù. Il problema arriva quando attraverso la spalla e mi porto su un altro versante della parete. Qui la pendenza è la stessa ma cambia la consistenza della neve. Ora sprofondo fino alla vita e salire è un’impresa. Naturalmente prima di noi sono saliti solo due canadesi le cui tracce sono state coperte dalle nevicate dei giorni scorsi e non hanno lasciato corde fisse. Così, spostandomi un po’ di qua e un po’ di là, andando a cercare tratti ghiacciati, e facendo una grande sudata, riesco a salire fino a un camino ghiacciato, lo affronto e arrivo alla base di un enorme seracco verticale sulla destra da affrontare come passaggio obbligato. Mi armo di coraggio, sfoggio tutta la mia tecnica di progressione su ghiaccio, metto perfino una vite a metà parete, e salgo. Bisogna fare in fretta perché sta sciogliendo tutto! Supero il tratto difficile e pericoloso, preparo una sosta e faccio venire su Loscia. Siamo fuori dall’icefall. Qui inizia un lungo plateau di neve fresca fino al Diki pass. Io mi pento immediatamente di aver lasciato gli sci sotto perché troppo pesanti. Sprofondando nella neve sempre fino al ginocchio e a volte fino alla vita, sempre da primo, con enorme fatica, superiamo il Diki pass. Qui le pendenze si fanno più accentuate e dobbiamo fare lo zigo zago tra enormi crepacci. Procediamo lentamente perché la neve è sempre profonda anche se più fredda. Alle 20:00 arriviamo ad una quota di circa 6050, troviamo uno spiazzo e decidiamo di montare la tenda lì. Non siamo arrivati ai 6400 mt del campo tre come ci eravamo ripromessi ma  sono dodici ore che siamo in movimeto, siamo molto stanchi e non desideriamo altro che mangiare, bere e dormire. La giornata è stata bella, cielo terso, azzurro e poco vento. Durante le operazioni di montaggio Loscia trova una sacca bianca lasciata lì da chissachì e chissà quanti anni prima. Dentro ci sono un fornello malandato, delle bombole di gas, un chiodo da ghiaccio, delle pastiglie di magnesio che io apro e mi metto subito in bocca a secco, col risultato di creare un schiuma incontrollabile che mi esce dalle labbra e si insinua in gola bruciandola, e poi una lattina di carne di porco e una di latte condensato vecchia di vent’anni. Sull’etichetta c’è scritto che è meglio consumarla entro un anno dall’anno di fabbricazione. A me sembra esagerato, così per cena ci spariamo noodles con carne di porco e latte condensato con stagionantura 20 anni sul Pobeda. Attendo con terrore gli effetti sul mio stomaco che per fortuna non arrivano. La mattina sono regolare come al solito.
La notte passa tranquilla, la mattina ci svegliamo alle sei e facciamo colazione a base di porridge. Abbiamo trovato un alimento che ci ha messo d’accordo: non piace a nessuno dei due, ma condito con una buona dose di cioccolata calda in polvere, ancora retaggio del Barzar, non è malaccio.
Partiamo di nuovo verso le 8:00 e sta volta facciamo solo 6 ore di scalata. Oggi è più tecnica: tratti di neve a placche e non, misti a tratti più ghiacciati si alternano a tratti su roccia fino al grado di 5a. Ci sono delle vecchie corde fisse con le quali, quando possibile, mi aiuto a piene mani. Non usiamo la jumar. La scalata sarebbe anche piacevole se non fosse per il vento forte che ti sferza da destra e per lo zaino il cui peso diventa sempre più insopportabile. Il vento mi costringe a indossare i moffoloni d’alta quota. Faticosamente arriviamo così alla quota di 6900 metri, dove inizia la cresta sommitale che ti porta poi alla cima. Siamo al C4, per noi il C3. Guardando verso la cima abbiamo alla nostra destra la Cina e alla nostra sinistra il Kirghistan. Nonostante la fatica e la stanchezza siamo felici di essere arrivati lì così velocemente. Dopo una breve discussione in cui Loscia vuole scavare una truna nella neve e io voglio montare la tenda, iniziamo a scavare la truna, ma io lo convinco quasi subito a montare la tenda, così ci buttiamo dentro la mia bella tenda monotelo a due posti. Siamo tutti e due molto stanchi , sciogliamo neve, facciamo tanta acqua e ci mettiamo a dormire alle 18:00 perché la sveglia sarà alle 3:00 per prepararci e partire verso le 5:00 per l’attacco alla vetta. 
Siamo carichi e, almeno da parte mia, non vedo l’ora che arrivi l’indomani per partire alla volta della cima. Le tre arrivano, la sveglia suona, io guardo fuori e ricevo la brutta sorpresa: apro la tenda e vengo investito da un leggero nevischio, guardo bene e non vedo le stelle, guardo meglio e proprio non vedo a due metri di distanza. Visuale azzerata e perturbazione in arrivo, impossibile partire. Posticipiamo la sveglia alle 4:00 e situazione invariata, alle 5:00 idem, così di ora in ora fino alle 8:00, quando, con il perdurare della situazione, decidiamo di scavare sta benedetta truna. Lavoriamo sodo per tre ore e quasi finiamo la truna quando tutti e due abbiamo troppo freddo ai piedi e ci buttiamo in tenda a scaldarli. Come per magia alle 11:30 il cielo diventa limpido e noi ci domandiamo cosa fare.
 Loscia ha un collegamento radio col campo base in cui io riconosco solo la parola ciclon. Niente da fare. Davanti a noi si prospettano cinque giorni di una grossa perturbazione. L’unica cosa da fare è di prendere tutte le nostre cose e scendere il più velocemente possibile. Che rabbia, la punta era così vicina… . Vabbè riportiamo a casa la pellaccia. Partiamo a mezzogiorno e alle 20:30, stanchi morti, ma proprio stanchi morti arriviamo al C1 alla base del ghiacciaio. 
Adesso sono qui ad Yssik Khol, ho appena scritto queste righe e, ripensando a quei momenti, il sentimento che provo è di rammarico. Rammarico perché il Pobeda è proprio una montagnona difficile e faticosa. Non è detto che il giorno dopo, senza il ciclon in arrivo, saremmo arrivati comunque in cima, ma avevamo ottime probabilità. Ora bisognerà rifare tutto da capo. Adesso mi devo concentrare sulle altre ultime due montagne. O meglio adesso per ancora due giorni non mi devo concentrare affatto, stiamo mangiando una quantità di frutta incredibile, stiamo nuotando nel lago e sta mattina ho anche fatto una corsa di un’ora e mezza dopo non so quanto tempo. Ovviamente sto rigenerando anche le riserve di birra… . Per ancora due giorni non devo pensare alle montagne, poi l’8 agosto torneremo a Bishkek e lì si ricomincerà di nuovo. Il 9 è dedicato all’organizzazione e preparazione e il 10 si vola a Dushanbe, la capitale del Tajikstan, poi l’11 in elicottero fino al Moskvina Glacier e la nostra intenzione è quella di scendere dall’elicottero e di recarci subito al C1 del Communism Peak perché avremo solo 15 giorni di tempo per scalare le due montagne.
Il progetto snowleopard continua, anche se ha subito un duro colpo con la mancata cima del Pobeda, potete giurarci che il prossimo anno, se riusciremo a scalare ora le ultime due montagne, saro’ di nuovo lì, alla base del Pobeda.
CALA 

1 commento:

  1. lettura stupefacente, grande Cala !! ciao Giovanni Pragelato

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